Direzione Nazionale 10 aprile – Doc non approvato (Bellotti, Bilardi, Giardiello e altri..)

 

  • Doc non approvato con 2 voti a favore

 

Per il partito di classe
Dopo la sconfitta, quale strada per il Prc?

La discussione sulla sconfitta elettorale di Rivoluzione civile e sul futuro di Rifondazione comunista fin qui avvenuta va completamente ribaltata. Per il gruppo dirigente fallimentare che ancora guida il partito tutto nasce e si esaurisce nella domanda “che ne sarà di noi?” A questa impostazione burocratica, che parte dalla sopravvivenza della struttura (in realtà del gruppo dirigente) a prescindere dai suoi obiettivi politici, vogliamo sostituire una discussione fondata sui processi reali in atto nell’economia e nella lotta di classe, su scala nazionale e internazionale.
Solo rompendo col soggettivismo impotente di questo gruppo dirigente possiamo orientarci nella situazione odierna.
L’organizzazione di partito ha senso solo e soltanto se trova corrispondenza nel conflitto reale, se è lo strumento della trasformazione sociale, o più precisamente, se è strumento per la rottura rivoluzionaria. L’esperienza del Prc mostra come un partito dotato di un apparato consistente, di cospicue entrate economiche, di presenza mediatica e nella pubblica opinione, possa rapidamente trasformarsi in un guscio vuoto e persino sparire, nel momento in cui la ragione della sua esistenza viene smentita dal conflitto reale.
Un partito di classe, prima di essere un’organizzazione o un apparato, è un programma, una prospettiva storica. Se essa si dimostra fondata, sarà possibile tramutarla in un corpo vivo, darle carne e sangue e costruire quindi lo strumento politico di cui la classe ha bisogno oggi più che mai (alla faccia di tutte le idiozie movimentiste e “grilline di sinistra”) se non vuole essere solo carne da cannone nella crisi del capitalismo.
In Italia si preparano le condizioni di una gigantesca esplosione sociale. La crisi profonda della sinistra non verrà risolta da nuove alchimie, ma dalla capacità di intervenire in un processo di massa paragonabile alle rivoluzioni arabe o alle esplosioni del movimento latinoamericano (anch’esse innescate dalla crisi finanziaria ed economica). È su questa prospettiva che dobbiamo tenere fissa l’attenzione se vogliamo che la nostra discussione getti le fondamenta per fare fronte a questo compito gigantesco. Tutto il resto sono schermaglie di gruppi dirigenti estenuati.

Una sconfitta senza appello

La sconfitta dell’elettoralismo di questo gruppo dirigente è talmente evidente da rendere superflua una ulteriore polemica. Basterà citare, fra i tanti esempi, la lettera agli iscritti con la quale il segretario Ferrero il 16 gennaio salutava l’avvio della campagna elettorale di Rivoluzione civile: “Innanzitutto considero un successo politico essere riusciti a dar vita a questa lista autonoma dal PD. Erano anni che ci lavoravamo e ancora poche settimane a molti fa pareva una impresa impossibile.” Queste parole venivano scritte a un mese dal voto che cancellava nuovamente il nostro partito dalle mappe elettorali.
Le decisioni successive alla sconfitta elettorale hanno mostrato la paralisi del gruppo dirigente, incapace persino di dare le dimissioni e di aprire una discussione seria che sfociasse nel congresso.
Il rifiuto di porre al voto nel Cpn del 9-10 marzo un ordine del giorno nel quale si proponeva di deliberare la convocazione del congresso nazionale entro l’estate ha rappresentato un’ulteriore ferita alle più elementari regole democratiche interne: anche la decisione più basilare, è stata sequestrata da una maggioranza la cui unica guida continua ad essere la paura.
Al congresso parteciperemo appieno con le nostre proposte, ma rifiutiamo di assumerci la responsabilità politica di scelte politiche disastrose che abbiamo contrastato con tutti i mezzi,  così come rifiutiamo di condividere anche un grammo di responsabilità con l’attuale segreteria per la gestione di questa fase precongressuale, della quale il “percorso” approntato (seminari, conferenze, ecc.) altro non può essere definito che una tergiversazione e una evasione dalle proprie responsabilità.
A questo percorso fittizio rispondiamo avanzando la nostra proposta e facciamo appello a tutti i compagni e le compagne a confrontarsi con noi sui seguenti punti, e a mettere in campo anche la necessaria azione militante e organizzata.

Costruire la “Syriza italiana”?

La questione della rappresentanza di classe è il punto centrale al quale dobbiamo dare risposta. La parola d’ordine del gruppo dirigente di “costruire la Syriza italiana” cerca una facile popolarità senza andare al nocciolo del problema.
È indubbio che i risultati elettorali di Syriza in Grecia, così come quelli del Front de Gauche in Francia e di Izquierda Unida in Spagna sono un prodotto del processo di radicalizzazione politica e della ricerca di una alternativa a sinistra, e in questo senso siamo stati i primi a sottolinearne il carattere sintomatico e l’importanza politica. Hanno dimostrato che la crisi produce conflitto e una radicalizzazione a sinistra, smentendo quanti, anche nelle nostre fila, sostengono la tesi che la crisi del capitalismo inevitabilmente conduce a sbocchi reazionari.
Tuttavia non possiamo limitarci ad essere “tifosi” di queste forze, e in realtà la parola d’ordine “fare come Syriza” non riflette altro che la speranza di raccogliere risultati elettorali consistenti, in contrasto con le mortificanti prestazioni di questi anni.
Ma cosa vuol dire “fare Syriza in Italia”? Il partito di Alexis Tsipras non è giunto al 27 per cento delle ultime elezioni per via di qualche particolare “trovata” politica. Sono state le circostanze politiche obiettive a spingerlo a quell’altezza. Il Synaspismos versava in una crisi non dissimile da quella che abbiamo attraversato in questi anni. La sua coalizione elettorale (Syriza, appunto) non era né più vasta, né più militante o più democratica della fallimentare Federazione della sinistra.
Ad aprire la strada all’esplosione elettorale di Syriza sono stati i seguenti fattori:
1. La profondità estrema della crisi del capitalismo greco e il conflitto di massa generato dai piani di austerità.
2. Il fatto che il Pasok (socialisti) fosse coinvolto in prima persona nelle politiche di austerità, prima come partito di maggioranza, poi come componente della coalizione tripartito con la destra.
3. Il settarismo del gruppo dirigente del Kke (Partito comunista) che lasciava aperto uno spazio a sinistra.
Date queste circostanze, il fatto che Syriza si sia dichiarata contraria ai piani di “salvataggio” e agli attacchi selvaggi imposti dalla troika ne ha fatto un riferimento elettorale e il depositario di forti speranze di riscatto e di ricerca di una alternativa.
Ma è proprio qui che sorge la maggiore contraddizione. Syriza non ha una proposta compiuta di alternativa a questo sistema. Al contrario, con l’approssimarsi di una prospettiva di governo Tsipras ha cominciato a moderare le proprie posizioni. Dalla “nazionalizzazione delle banche” si è passati a parlare di “controllo pubblico” e addirittura di ricapitalizzazione a spese dello Stato. Dal ripudio del debito si passa ora a parlare di rinegoziazione. L’obiettivo dichiarato è mantenere la Grecia nell’Euro, ma questo è impossibile a farsi salvando al tempo stesso il popolo greco da una crisi e da una devastazione e degradazione sociale senza precedenti in tempi di pace.
Tutto questo significa che le stesse circostanze che stanno spingendo Syriza alle vette di un possibile successo elettorale possono, anche in un tempo brevissimo, fare esplodere queste contraddizioni e precipitare questa forza in una crisi tanto profonda quanto sono estese le speranze che essa ha suscitato, o meglio dalle quali è stata investita.
Ci riconosciamo quindi nella presa di posizione dei nostri compagni greci che hanno recentemente lanciato l’appello alla costituzione di una “componente comunista di Syriza” rivendicando una battaglia contro lo slittamento moderato del gruppo dirigente e in favore di un chiaro programma anticapitalista come base per un governo della sinistra (Syriza-Kke) in Grecia.
Per questo riteniamo che la parola d’ordine necessaria non sia “fare Syriza in Italia” o di “fare in Italia la sinistra che c’è in altri paesi”, ma sia quella di lottare su scala nazionale e internazionale affinché si affermi nella sinistra un programma di alternativa anticapitalista e una prospettiva rivoluzionaria.

La questione del programma

Lo scorso anno la Segreteria del Prc ha varato una bozza di programma proponendo una lunga lista di oltre 150 punti. Di tale programma si sono perse rapidamente le tracce, e non per caso. Esso infatti si proponeva di conciliare l’inconciliabile, ossia di tracciare una serie di rivendicazioni  che potessero essere compatibili, o “non incompatibili”, con il quadro dato del sistema capitalista in crisi e con le varie ipotesi di alleanze elettorali che il gruppo dirigente tentava via via di costruire. In altre parole il programma, come del resto tutta la politica del gruppo dirigente, commetteva il classico errore di dipingere la realtà come “dovrebbe” essere anziché partire dalla realtà “come essa è realmente” Il filo conduttore era quello di “mettere la mordacchia” alla speculazione, ossia l’illusione che si possa uscire dalla crisi colpendo la finanza e tornando a un capitalismo “sano e produttivo”.
Peraltro lo stesso limite di idealismo pervade da cima a fondo tutti i programmi dei gruppi dirigenti della sinistra e dei sindacati.
Lavoreremo fin dai prossimi mesi alla stesura e alla discussione di un programma necessario oggi alla sinistra. Il punto di partenza di tale discussione sarà il seguente: oggi la crisi del capitalismo impone un tale livello di attacco al movimento operaio e in generale agli strati popolari che anche le più elementari rivendicazioni economiche, sociali, democratiche entrano in conflitto insanabile con le basi del sistema stesso.
Questo non significa che si debbano abbandonare le rivendicazioni parziali, specifiche, anche solo difensive. Al contrario, proprio la profondità dell’attacco della classe dominante spinge e spingerà continuamente i lavoratori a tentare di difendere con ogni mezzo le proprie condizioni di esistenza sotto attacco.
Rivendicazioni quali la riduzione d’orario, la difesa e il rilancio dei salari, un vero salario di disoccupazione, la difesa dei posti di lavoro, il diritto a una istruzione e a una sanità pubbliche, alla pensione, alla casa… debbono tuttavia essere collegate in un disegno organico e soprattutto legate indissolubilmente alla necessità della rottura col capitalismo e alla costruzione di un diverso sistema economico, basato sul controllo dei lavoratori e dei cittadini su tutti i principali rami dell’economia: sistema bancario, grandi gruppi industriali, reti di comunicazione, energia, acqua, trasporti, grande proprietà terriera e immobiliare, assicurazioni.
In altre parole, nella situazione odierna un programma che voglia essere effettivamente strumento di azione e di mobilitazione deve basarsi sulla logica del programma di transizione: non il disegno delle “riforme possibili” e neppure quello di una società ideale, ma il necessario collegamento tra le contraddizioni reali per quali esse si presentano ogni giorno di fronte alle masse e la necessità del rovesciamento del sistema. È esattamente compito di un partito di classe saper costruire, nell’elaborazione e nell’azione, questo passaggio.
A livello sindacale questo significa abbandonare ogni idea di nuova concertazione o patto sociale in favore di una pratica sindacale fondata sul rapporto democratico coi lavoratori e sulla loro mobilitazione attiva e controllo su tutti gli aspetti della vita sindacale, su piattaforme che rompano il quadro delle varie “compatibilità” e su metodi di organizzazione del conflitto che concentrino la forza delle mobilitazioni laddove è effettivamente possibile creare un danno alla controparte, abbandonando le pratiche puramente dimostrative e di conflitto “mimato” o “simulato” che hanno creato un abisso fra il gruppo dirigente della Cgil e la dei massa lavoratori.
A livello politico questo significa rompere con la lunga e ingloriosa stagione della collaborazione di classe, lavorare alla costruzione di un partito di classe di cui Rifondazione può essere elemento propulsore e trainante, avanzare la prospettiva di un governo della sinistra (oggi lontano in Italia, ma che come dimostra l’esempio della Grecia può diventare anche in tempi rapidissimi una possibilità concreta) con un programma anticapitalista.
A livello ideologico, infine, significa rompere con le teorie tardo-keynesiane che continuano ad essere la vera base “teorica” di tutti i programmi della sinistra riformista, inclusa la bozza di programma presentata dalla segreteria nazionale.

Per il partito di classe

Le ripetute sconfitte dei vari progetti di aggregazione elettorale (Fds, Rivoluzione civile) hanno una base profonda nella completa sfiducia del gruppo dirigente nella possibilità che Rifondazione comunista possa esistere e svolgere un ruolo politico nel conflitto di classe.
È questa sfiducia di fondo che rende impossibile qualsiasi prospettiva di rilancio del partito. Non è all’orizzonte una seconda Chianciano, né una “rifondazione della rifondazione”. La spinta alla liquidazione ha ormai conquistato l’intero gruppo dirigente di maggioranza, sia pure con varianti e sottovarianti tattiche. Esiste tuttavia ancora un corpo militante che non intende abbandonare la battaglia e che chiede un ancoraggio a una prospettiva di classe.
Tra queste due spinte non c’è oggi conciliazione possibile, non per astratti motivi ideologici, ma per la concreta condizione del partito e per la profondità della sua crisi: il permanere al vertice del Prc di questo gruppo dirigente implica la liquidazione del partito, oppure, il che è alla fine lo stesso, la sua frantumazione su linee centrifughe (che non sono solo di aree politiche, ma anche territoriali, di gruppi senza base politica che non sia quella della prospettiva istituzionale di questo o quel “dirigente”, del ritorno al “sociale” con l’abbandono di fatto della battaglia politica, o infine delle varie “attrazioni fatali”: Sel, Pd, M5S). D’altra parte l’affermarsi di una linea politica e di una pratica che rompano con la deriva di questi anni e puntino a ricollegarsi alla classe e al conflitto reale implica la rottura con questo gruppo dirigente.
Questo significa che il prossimo congresso sarà differente da tutti i precedenti, nella misura in cui il vero compito che gli dovremo  affidare sarà quello di tracciare la linea di demarcazione fra queste due linee incompatibili. La nostra partecipazione sarà quindi piena, ma sarà esplicitamente volta a favorire tale processo. In altre parole, o prevale l’opzione di classe che intendiamo avanzare, oppure il destino del Prc sarà segnato.
Ma anche la fine di un partito non significa la fine del problema della rappresentanza politica della classe lavoratrice, al contrario: tale necessità storica verrà posta più che mai all’ordine del giorno dal precipitare della crisi economica e dal conflitto che ne deriva. Come dimostrano i processi a livello europeo e internazionale, le masse non aspettano che i “dirigenti” siano “pronti”, ma sono costrette ad aprirsi una strada provando e riprovando, premendo sulle organizzazioni esistenti e tentando di farsene uno strumento di battaglia, talvolta dando nuova forma a queste stesse organizzazioni, mettendo alla prova idee, dirigenti, programmi. Sarà in base a tali processi profondi che verrà costruito quel partito di classe necessario a trasformare la inevitabile resistenza di massa alla crisi in una battaglia organizzata, concentrata e finalizzata alla trasformazione del sistema.
Le forze della sinistra riformista (Sel, area “laburista” del Pd, ecc.) tenteranno di sfruttare la loro presenza parlamentare per incanalare il processo nella gabbia della conciliazione di classe; una politica che tuttavia oggi non ha niente da offrire, né in Italia né su scala internazionale. Il quadro politico è destabilizzato profondamente e questo vale tanto più oggi nel campo della sinistra. Per orientarsi è necessario abbandonare una volta per tutte le visioni elettoralistiche, i tentativi di scomporre e ricomporre a tavolino le aggregazioni parlamentari e i gruppi dirigenti burocratici. Le linee politiche fondate su questo approccio (“se il Pd si spaccasse”… “se Sel rompesse col Pd”… e così via all’infinito) sono destinate inevitabilmente a ricadere nell’opportunismo, nel codismo e nella subordinazione politica.
Siamo quindi chiamati ad essere parte attiva nella soluzione di un gigantesco problema storico, ed è questo il campo nel quale intendiamo intervenire. Un campo quindi assai più vasto non solo del Prc, ma in generale delle organizzazioni della sinistra oggi esistenti. È una battaglia che chiama in causa anche la crisi di strategia della Cgil e della stessa Fiom, che deve allargarsi a tutti i terreni di conflitto, dalle fabbriche alle scuole, ai diversi movimenti di resistenza che continueranno a prodursi come effetto delle politiche di austerità.
In tutti questi ambiti, e in particolare all’interno della classe operaia e del mondo del lavoro, intendiamo fin da ora rafforzare la nostra battaglia, indipendentemente dalle indicazioni di un gruppo dirigente che tra le sue tante colpe ha anche quella di avere completamente abbandonato un intervento sistematico nei luoghi di lavoro e di avere ridotto i Giovani comunisti a un guscio burocratico. A tutti i compagni che condividono questo orientamento chiediamo di contribuire al lavoro di raggruppamento, organizzazione e costruzione che sempre ha contraddistinto l’azione della nostra tendenza politica, che non ha mai fatto della conquista di percentuali o di organismi il fine della sua azione, ma che ha sempre lavorato per mettere alla prova le proprie proposte con l’intervento diretto nel movimento reale.
La natura e il fine di questo impegno si deve distinguere radicalmente dall’attivismo fine a se stesso con il quale la maggioranza dirigente ha coperto la sostanziale doppiezza della propria azione: ai circoli le campagne sull’articolo 18 o le iniziative del partito sociale, ai dirigenti le “sapienti tattiche” che avrebbero dovuto farli rientrare in Parlamento.

Su queste linee intendiamo aprire fin da subito il confronto e il lavoro comune con tutti i compagni che siano disponibili a questo percorso.
A quei compagni che onestamente imputano al “correntismo” e alle divisioni politiche l’attuale crisi del Prc chiediamo una riflessione; lo scontro di posizioni politiche che ha attraversato la sinistra non è casuale, non dipende da capricci di dirigenti o pure logiche di parrocchia, ma è solo un riflesso dello scontro più vasto che attraversa la società e il movimento operaio. Chiunque rilegga con obiettività la storia del Prc anche solo negli ultimi anni non può non riconoscere che, a prescindere da questa o quella sfumatura, la critica che abbiamo esercitato su tutte le scelte fondamentali del gruppo dirigente ha trovato una conferma schiacciante negli avvenimenti.
Dobbiamo essere consapevoli non si tratta di una disputa accademica fra tesi diverse. Le posizioni politiche influenzano le scelte e queste a loro volta determinano, con i loro effetti, il nuovo terreno sul quale si combatte lo scontro tra opzioni diverse. Proprio per questo motivo, perché non pensiamo che ci debba venire riconosciuta una “ragione” astratta, ma perché intendiamo provare sul campo la validità delle nostre tesi, ci impegneremo in questo percorso e chiederemo a tutti i compagni che ne condividono l’impianto di verificarne con noi la efficacia contribuendo attivamente alla sua costruzione.

Claudio Bellotti, Donatella Bilardi, Alessandro Giardiello, Lidia Luzzaro, Sonia Previato, Jacopo Renda