Neofascismo, il rischio della banalizzazione

di Alberto Burgio

su Aprile online del 28/05/2008

Si respira un clima di legittimazione di posizioni ideologiche e comportamenti fino a ieri condannati perchè chiaramente neofascisti. Un clima scaturito da segnali che esponenti politici come Fini, Alemanno, Gasparri hanno dato. Su tutti, la recente proposta del sindaco capitolino di dedicare una strada ad Almirante. Mentre l’antifascismo ha perso forza.

L’unico motivo di sorpresa di fronte all’incalzare degli episodi di violenza squadrista consiste nella rapidità e nella estrema durezza di fatti di per sé molto prevedibili. Con l’elezioni di Alemanno al Campidoglio e il trionfo della destra alle elezioni di aprile era immaginabile che le formazioni neofasciste avrebbero rialzato la testa. Ma questa sequenza è impressionante e dice che non siamo di fronte ad episodi estemporanei: emerge una presenza radicata, capillare e organica di organizzazioni della destra fascista e neonazista.

Ma perchè ora questo arcipelago sale in superficie con tale evidenza? Perché si respira un clima di legittimazione di posizioni ideologiche e comportamenti sino a ieri generalmente condannati. Si respira, questo clima, perché si sono dati precisi segnali. Come quando l’onorevole Fini commenta la propria elezione alla presidenza della Camera dichiarando che essa “riabilita la cultura della destra”. E che cosa è la cultura della destra? Si vada a veder quanto ne scriveva, oltre 20 anni fa, Furio Jesi studiando gli scritti del giovane Romualdi: un’ ideologia culto della morte, mitologie identitarie, sacralità delle gerarchie, religione del sangue e del suolo.

Si respira, questo clima, anche da quando il neopresidente della Camera sostenne di ritenere ben più grave bruciare qualche bandiera che assassinare qualcuno per strada come era appena avvenuto a Verona. E si respira, soprattutto da quando il governo annuncia e poi vara provvedimenti xenofobi e chiaramente incostituzionali, segnati dalla volontà di emarginare e punire i soggetti più deboli a cominciare dai migranti, come il decreto che prevede un aggravante per reati se commessi dai immigrati irregolari. Decreto al quale, non possiamo non sottolinearlo, anche il Pd ha riconosciuto i requisiti della necessità e dell’urgenze. Dopo questi fatti e dopo questi esternazioni (e molte altre se ne potrebbero aggiungere, come le parole del neo sindaco di Roma in merito al ruolo del fascismo nella modernizzazione italiana), la serie delle violenze si è fatta incalzante: contro i rom, contro un conduttore di una radio omosessuale, e ieri alla La Sapienza, con un aggressione squadrista pianificata, che subito la Digos si è precipitata ad inquadrare nella cornice degli opposti estremismi.

E queste violenze non sono criticate, bensì coperte e rivendicate nel momento in cui se ne nega, anche da parte di esponenti di governo, la loro matrice politica. Nonostante la presenza sul luogo di simboli, di sigle e di noti attivisti neofascisti.

In questo clima va letta la proposta di intitolare una strada di Roma ad Almirante, avanzata dal sindaco Alemanno. Il quale sfrutta -anche questo va riconosciuto- le improvvide aperture compiute da forze democratiche in questi anni. Si pensi all’idea che ebbe l’allora sindaco di Rutelli di intitolare una strada della capitale al fascista e razzista Giuseppe Bottai. Per non dire delle considerazioni di Luciano Violante, appena eletto alla presidente della Camera, sulle ragioni di chi si arruolò nella milizia repubblichina.
Agisce in questo contesto quella grande confusione che va sotto il nome di “volontà di pacificazione”. Ha ragione Sergio Luzzatto quando scrive, nel suo “Crisi dell’antifascismo”, che questo discorso riposa su mistificazioni e alimenta disorientamento. Chi potrebbe non volere il superamento di lacerazioni o di odii? Ma superare implica che si compiano gesti e si dicano parole chiare nel segno di una seria presa di distanza, mentre in questi giorni assistiamo a fatti che dicono l’esatto contrario. E udiamo parole che confermano che vasti settori della politica e della classe dirigente italiana mantengono saldi legami con il passato fascista. Si pensi a quanto ha detto ancora ieri il senatore Gasparri, capogruppo del Pdl a Palazzo Madama, a proposito di Almirante, rispondendo duramente alle proteste della comunità ebraica contro la proposta di intitolargli una strada: Almirante “è stato un grande maestro, un insigne politico, un leader che ha saputo far crescere il suo partito ed imprimergli quella svolta che oggi lo ha condotto nel Popolo della libertà e domani nel Partito popolare europeo”. E “La difesa della Razza”? E le fucilazioni a Salò? E l’adesione entusiasta ai provvedimenti che il regime fascista adottò contro ebrei, “zingari”, “devianti”?

Ma quel che più ci preoccupa sono le conseguenze di questa offensiva ideologica. Ieri Alessandro Portelli scriveva su Il Manifesto che le rivendicazioni politiche dei gesti squadristici non sono più necessarie perché ormai “il fascismo è senso comune”. In questi stessi giorni alcuni storici, giuristi, antropologi e filosofi (tra cui Etienne Balibar, Enzo Collotti e Alessandro Dal Lago) hanno lanciato un allarme per dire la stessa cosa e cioè che c’è in atto la possibilità che cadano veti e interdizioni nei confronti del razzismo, e che il razzismo possa diventare a sua volta senso comune.

A questo siamo giunti. E sarà necessario riflettere sulle cause e sulle responsabilità di questo risultato. Ma oggi la cosa più urgente è che se ne prenda tutti coscienza. Senza riduzionismi e smettendola con la consuetudine di banalizzare ciò che è divenuto ormai una drammatica emergenza per la nostra democrazia.