Una analisi su NATO e CAMP DARBY

2 giugno 2017, manifestazione a Camp Darby
Foto by Giacomo Bazzi

Il dibattito sul potenziamento di Camp Darby si è concentrato, fino ad oggi, su due principali ordini di considerazioni.
Il primo relativo al pericolo connesso al trasporto ed allo stoccaggio di armi, il secondo connesso al danno ambientale conseguente la realizzazione delle nuove infrastrutture, per le quali si è stato appena aggiudicato il bando. Come giustamente veniva ricordato da Fabrizio Coticchia sulle colonne de “Il Tirreno”, è fondamentale prendere in analisi l’aspetto strategico, e di conseguenza la ragione politica, dietro questa operazione; anche se facendo ciò si può arrivare a posizioni anche lontane da quelle espresse nella sua intervista. Il principale ambito di relazioni da tener presente è sicuramente quello della NATO, di cui l’Italia è membro fondatore (e non per suo merito, tra l’altro). Per prima cosa, la NATO rappresenta in realtà solo la struttura militare integrata di quello che viene chiamato “Patto Atlantico” che è sostanzialmente un accordo politico di mutua difesa e una dichiarazione d’intenti e comune volontà. Tanto che la Francia gollista, pur non denunciando mai il trattato, sottrasse ad esempio le proprie forze armate dalla struttura militare integrata dell’Alleanza fin dall’inizio della V Repubblica. Questa distinzione è importante perché consente di affrontare la questione senza dover ricorrere a pretestuosità ideologiche o di antiamericanismo preconcetto.
Indubbiamente, finché è esistito nella percezione dell’Europa Occidentale il timore di aggressione da parte del Patto di Varsavia. questo faceva sì che gli interessi nazionali dei singoli membri coincidessero, in tutto o in parte, con quelli degli Stati Uniti, nella misura in cui gli americani avevano interesse ad un’Europa non comunista. Come è possibile dimostrare questa aderenza d’interessi? Senza dover analizzare una ad una le dottrine d’impiego della forza che si sono susseguite a partire dall’inizio degli anni ’50, il meccanismo d’ingaggio delle forze NATO non è sostanzialmente mutato nel corso dei decenni della guerra fredda. Questo meccanismo consisteva in una massiccia concentrazione di truppe a difesa della cortina di ferro, e nell’ombrello nucleare americano. Affinché la garanzia di quest’ultimo fosse percepita come reale dagli alleati, diverse decine di migliaia di soldati americani stazionavano nei paesi membri, più come ostaggi che come reali difensori in caso di invasione. L’Europa Occidentale non poteva infatti garantire la profondità strategica sulla quale l’Unione Sovietica poteva fare affidamento, di conseguenza l’unica assicurazione contro un intervento con armi convenzionali del Patto di Varsavia era rappresentata dall’impiego dell’arsenale nucleare americano, da qui la necessità brutale di averne il certo impiego con morti americani sul terreno in caso di conflitto. Gli stessi modelli di difesa dei paesi alleati rispondevano a questo tipo di minaccia. Nel caso italiano, più di 1/3 dell’esercito era schierato a nord est e organizzato in divisioni e brigate corazzate, mentre aeronautica e marina erano considerate relativamente marginali in quel contesto – nonostante l’estensione latitudinale del nostro paese e la sua centralità nel Mediterraneo. Era stata infatti la Francia a volere fortemente l’Italia nell’Alleanza Atlantica. La Francia, avendo una sponda mediterranea e cercando un contrappeso politico, si fece il nostro miglior sponsor, non facendo mutare per questo lo scacchiere principale di confronto. Questi elementi fanno subito emergere come solo una parte dell’interesse nazionale italiano fosse in prima battuta corrispondente a quello americano o della NATO. Certamente, il contesto bipolare della seconda metà del XX secolo aveva modificato molti fattori nella stessa definizione politica di interesse nazionale, almeno nel nostro paese.

Le cose sono radicalmente mutate con la fine della guerra fredda e l’implosione dell’Unione Sovietica. Mentre il Patto di Varsavia si è sciolto, la NATO non ha fatto altrettanto. Qual è allora la convergenza di interessi nazionali che accomuna i membri dell’Alleanza? Sostanzialmente si tratta di un singolo interesse, che non ha fatto altro che riproporsi, ossia quello della Germania. Se l’Unione Europea era agli occhi di americani ed inglesi il contenitore della potenza economica tedesca (o il contesto della propria velleità egemonica continentale, per quanto riguarda i francesi), la NATO doveva esserne la garanzia militare. Così come la Germania, nuovamente unita, ha portato al trattato di Maastricht del 1992, così ha determinato la persistenza dell’Alleanza Atlantica. Ricordate la battuta di Andreotti? “L’Italia vuole così bene alla Germania da volerne due”; nel suo stile, aveva centrato il segno. Se dal punto di vista economico l’Euro non è riuscito a neutralizzare l’egemonia tedesca, tanto da esserne divenuto lo specchio della politica monetaria, la NATO si è trasformata nel mero strumento di proiezione della potenza americana. Il numero di conferenze internazionali nei quali veniva discussa la nuova dottrina dell’Alleanza si perde, semplicemente perché una nuova dottrina non poteva essere adottata, a meno di non voler giustificare la realtà con una foglia di fico. Le prime a reagire al nuovo contesto internazionale sono state naturalmente le intelligenze strategiche dello stato maggiore. Da una forza che riuscisse ad attutire il colpo di un’invasione, almeno il tempo necessario a far scattare l’ombrello atomico, si è passati ad un modello di difesa di proiezione. Per l’Italia questo ha significato in soldoni la fine della leva obbligatoria, lo smantellamento di intere divisioni corazzate ed una rinnovata centralità di aeronautica e marina. La stessa cosa hanno fatto gli altri membri dell’Alleanza, americani compresi, che avevano però ben capito come le proprie forze in Europa, non più ostaggi a garanzia del pericolo sovietico, potessero essere utilizzate come punti avanzati e di proiezione della propria potenza. Sebbene infatti gli accordi bilaterali di stanziamento delle forze alleate siano adottati in ambito NATO, di accordi bilaterali comunque si tratta, non costituendone alcun impedimento all’impiego da parte del Pentagono. Dall’Italia, e senza alcuna necessità di autorizzazione “politica” e quindi democratica, transitano ed hanno transitato i più svariati mezzi per operazioni di guerra americane che nella hanno a che vedere con la dottrina NATO o con il coinvolgimento di qualsivoglia organismo dell’Alleanza, salvo poi coinvolgerla quando le cose si fanno difficili, come in Afghanistan, grazie a dottrine ad hoc fatte uscire fuori dal cilindro al primo vertice utile. Naturalmente, siccome la si fa ma non la si dice, anche l’incessante retorica americana sulla necessità che gli europei, Italia inclusa, aumentino almeno al 2% del PIL le proprie spese militari, risponde a questa logica. Gli europei devono investire di più per garantire la propria sicurezza, dicono, perché loro non lo possono più fare. Peccato che non lo stiano già facendo, e che tutto questo serva solo a mascherare agli occhi dell’opinione pubblica le reali motivazioni dietro la loro permanenza. Nessuno, meno che mai in politica internazionale, fa niente per niente, ma a volte sembra che ce ne dimentichiamo.
Per un’economia di grandi dimensioni ed in contesto globale, quale quella italia, la definizione di interesse nazionale possa spaziare ovunque nel mondo, ma questo è fuorviante. L’interesse nazionale italiano è saldamente ancorato al Mediterraneo e non passa per il Mar Baltico o le montagne dell’Hindukush; occorre però una seria riflessione nazionale su quali siano i mezzi adatti allo scopo e perseguirli, non certo essere corresponsabili dei massacri altrui consentendo il potenziamento di un’infrastruttura di morte su comando altrui come Camp Darby.

Francesco Renda
Segretario Federazione Livornese Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea